Solennità di San Giovanni XXIII: il commento del nostro Rettore

60° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II

Viviamo un tempo di grande fatica: ci svegliamo con notizie che gettano sin dall’inizio del giorno un velo di incertezza, se non addirittura di paura. Se nell’estate appena trascorsa abbiamo imparato a razionare l’acqua, ora arrivano da ogni parte suggerimenti per farlo con l’energia elettrica e il gas: lampadine a basso voltaggio, organizzazione del bucato, contenimento nell’uso degli elettrodomestici, ma soprattutto negozi e imprese che riducono gli orari di lavoro e aziende che chiudono per l’insostenibilità dei costi. E poi si sente ormai da giorni parlare in maniera insistente di bomba atomica, vocabolo sconosciuto per chi è venuto dopo gli anni ottanta e non ha avuto l’occasione di rimanere impressionato dal film “The day after”. Non voglio anch’io aggiungermi a coloro che quotidianamente stilano l’elenco dei mali del mondo come quelle anziane signore al mercato che sciorinano il numero delle visite mediche in programma o i malanni e i dolori della notte appena trascorsa. Dunque, mi fermo qui, nel narrare lo sguardo dalla finestra di casa sul mondo in questi giorni di fiato corto.

Provo ad andare con la memoria – quella della storia, non la mia perché ancora non esistevo – a quei giorni – sessant’anni fa – in cui a Roma prendeva inizio un’esperienza destinata a lasciare un grande segno, il Concilio Vaticano II. Pure quelli non erano tempi luminosi: la “Guerra fredda” impediva ai due grandi blocchi del mondo di parlarsi, e gli ingegneri di entrambe le parti erano impegnati a pensare e costruire nuovi ordigni bellici, il muro di Berlino era in costruzione già da un anno, e in molte parti della terra la democrazia era una parola sconosciuta. Giovanni XXIII ebbe la grande intuizione di radunare i Vescovi di tutta la terra perché la Chiesa aveva bisogno di questo, di ascolto, di mettersi in ascolto dello Spirito Santo che parla al cuore di tutti e, come un grande telescopio aperto alle voci dell’universo, mettersi in udienza della voce di Dio che parla con quelle degli uomini oltre che con la Sacra Scrittura. E lo Spirito fece udire la sua voce, e il mondo fu attratto, un po’ per curiosità, molto più per l’effervescenza della novità che veniva a galla dai cuori strabordanti di voglia di apertura e di incontro. Ci voleva un anziano per avviare un’esperienza attesa da secoli, un anziano sapiente e saggio, esperto nell’ascolto della voce dello Spirito che riecheggia nel cuore degli uomini alla stessa maniera in cui l’onda fa udire il suo rumore quando si infrange sulla battigia.

Giovanni XXIII aveva imparato lungo tutta la sua vita in giro per il mondo a tendere l’orecchio oltre il suono delle parole, a udire il dolore celato in esse, ma ancor di più la speranza che, nel profondo, spinge fuori il grido o il lamento verso un orecchio, o meglio un cuore, perché venga accolto. A distanza di anni – e forse sono un po’ di parte a dirlo, ma nessuno ha argomenti per smentirmi – voglio dire che forse lo Spirito santo mise Angelo Giuseppe Roncalli sul trono di Pietro proprio per fargli avviare la meravigliosa esperienza del Concilio. Con un’espressione poco letteraria, più ad uso del linguaggio verbale, ma di immediata comprensione, possiamo dire che Papa Giovanni “non stava più nella pelle” nel voler far partire questa esperienza: lo dice la data in cui lo annunciò per la prima volta, il 25 gennaio 1959, neanche tre mesi dopo la sua elezione; lo dicono le parole che noi tutti ricordiamo, quelle passate alla storia come “il discorso della luna”, lo dice quel mirabile discorso di inaugurazione tutto teso alla speranza e alla fiducia nella Provvidenza, con quelle solenni e luminose parole di apertura: «Gaudet Mater Eccliesia», la Madre Chiesa gioisce. «Tantum aurora est», siamo soltanto all’inizio: questa espressione, contenuta nel discorso di inaugurazione, dice molto dello spirito di speranza che animava quell’anziano pontefice, fiducioso che è il Signore che porta avanti la storia, non l’uomo con i suoi corsi e ricorsi.

E, se c’è un compito importante oggi della Chiesa, questo è quello di seminare la Speranza, se vogliamo dirci qual è oggi la nostra vocazione di battezzati, questa è di annunciare il Vangelo, che è Speranza. Nei giorni scorsi ho assistito all’ordinazione di 30 nuovi diaconi nel Duomo di Milano. L’arcivescovo Mario Delpini ha battezzato questi trenta giovani consacrati per il servizio dell’annuncio “Angeli di pace”. «Essi – disse l’Arcivescovo – sono messaggeri di pace (…) non annunciano se stessi o qualche ricetta originale, ma il messaggio loro affidato. (…) Si riconoscono perché rimandano ad Altro, perché annunciano il Signore (…) e così sono pieni di gioia». In questo tempo, cari amici, il Signore ci chiede di fare ancora più spazio al suo Vangelo nella nostra vita, perché la luce della Speranza di Cristo raccolta dentro la Buona Notizia rifulga – anche solo come piccolo barlume – nel cuore e nella vita di tanti nostri fratelli afflitti o spaventati.

Cari amici, vi saluto e vi benedico insieme alle parole rincuoranti di quel discorso dell’11 ottobre di sessant’anni fa, che inaugurava un’epoca nuova nella Chiesa:

Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa.

Buona festa di San Giovanni XXIII e buon cammino.
Don Claudio

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