Verso il 3 giugno: due colombe e una preghiera per la pace

Si sta bene la sera. Non fa più freddo, e non fa ancora quel caldo fastidioso che ci accompagnerà durante tutta l’estate. E così, dopo cena, il Giardino della Pace si anima: nel suo silenzio accogliente e pieno di mistero, uomini e donne — da soli, in coppia o con qualche bambino — raggiungono la statua di Papa Giovanni per consegnargli una preghiera, per chiedergli una benedizione, uno sguardo di particolare cura su un figlio, un marito, una situazione difficile.
Piace anche a me passeggiare nel Giardino della Pace al calar del sole e osservare chi vi entra con spirito filiale e con umiltà, con quel rispetto e quella meraviglia con cui si entra in una cattedrale. Vi sto con il mio rosario in mano, sgranandone piano piano i grani, con calma, gustandomi i profumi del gelsomino, del tiglio, e accarezzato da quel silenzio palpabile che ti fa sentire al centro del mondo.
Una delle scorse sere il mio rosario è stato accompagnato — o meglio, cadenzato — dai messaggi che, di tanto in tanto, mi arrivavano sul cellulare dalla Rettrice dell’Università di Haifa, la professoressa Mouna Maroun, già ospite del nostro Santuario lo scorso aprile, in occasione di uno degli incontri dei Venerdì della Speranza. Siamo rimasti in contatto, e ogni tanto ci scriviamo, soprattutto per aggiornarmi sulla situazione di difficile equilibrio tra studenti di origine araba e studenti di origine ebraica.
I messaggi che la Rettrice mi ha inviato quella sera raccontavano di una tensione fortissima, anche all’interno dell’università. Queste alcune delle sue parole: «La situazione è deprimente, è tragica, è scioccante». Mi ha colpito profondamente quando, a un certo punto, ha scritto: «La pace? Non so se arriverà da noi». Ciò che è accaduto in questi ultimi tempi ha toccato nel profondo gli animi di entrambe le parti: il dolore, l’odio — possiamo dirlo — si è talmente radicato che oggi è difficile non solo parlare di pace, ma persino sperarla, che pure è il primo passo per poterla realizzare.
Sembra così assurdo, anche a noi che viviamo lontani dal conflitto. Non ci sembra possibile che il bollettino dei morti si aggiorni ogni giorno, composto — di fatto — da civili, tra cui molti bambini. È così assurdo, così disumano, così malefico, che facciamo fatica persino a crederci.
E ci coglie uno sgomento profondo, soprattutto pensando a ciò che non possiamo fare, a ciò che vediamo ma a cui non possiamo reagire. È brutale, disumano, profondamente e diabolicamente ingiusto ciò che sta accadendo. Anche per noi, che a Sotto il Monte preghiamo ogni giorno per la pace, quanto accade — non solo in Palestina, ma anche in Ucraina e in tante altre parti del mondo — ha il sapore di una sconfitta.
«Per favore, Signore, ascolta la nostra preghiera. Ascoltaci. Non permettere più che i prepotenti continuino impunemente a fare del male. Basta, Signore: i nostri occhi non sopportano più immagini di morte, e le nostre orecchie non reggono più bollettini di guerra pieni di vittime civili».
Anche nello sport, ogni sfida tra due parti contrapposte è governata da un arbitro, che impedisce che la competizione degeneri in conflitto. Dov’è l’arbitro in queste situazioni? C’è qualcuno, sopra le parti, che con autorevolezza sappia dire parole di giustizia, di denuncia, di rimprovero o di chiara deplorazione?
Cosa possono ancora sperare gli abitanti sopravvissuti di Gaza? Cosa possono sperare gli ucraini che vivono sotto la costante minaccia di missili e droni?
Mi torna spesso in mente quanto accadde nell’ottobre del 1962, pochi giorni dopo l’apertura solenne del Concilio Vaticano II. Papa Giovanni intervenne nella cosiddetta “Crisi di Cuba” con un radiomessaggio, supplicando Stati Uniti e Unione Sovietica a trovare un accordo di pace. Sappiamo che accompagnò quell’appello con una lunga e fervente preghiera. E la storia ci racconta che i due capi di Stato fermarono le proprie azioni e si evitò un terzo conflitto mondiale.
Sì, credo che fu la santità di Papa Giovanni, la preghiera di quell’uomo santo, a impedire un’altra guerra.
E allora mi chiedo: forse la nostra preghiera è ancora tiepida, poco insistente? Forse il nostro cuore non è ancora davvero trafitto, non sente come propri quei morti, non si lascia perforare dalle grida di mamme, papà, bambini che ogni giorno salgono al cielo?
È vero: non crediamo abbastanza nella pace. Non vi crediamo così tanto da invocarla con fiducia. Eppure, quando chiediamo qualcosa di buono, di giusto e sacrosanto, Dio non può non ascoltarci.
Allora mettiamoci a pregare sul serio. Facciamo il nostro dovere di credenti. Credo che questo sia il modo migliore per celebrare l’anniversario della morte di Papa Giovanni.
Martedì 3 giugno, a Sotto il Monte, si pregherà tutto il giorno per la pace, e chiederemo di farlo anche al Cardinale Mario Grech, che presiederà la solenne Eucaristia serale in Santuario. Vorrei consegnargli un messaggio da portare a Papa Leone: che qui, a Sotto il Monte, ci impegniamo, non smettiamo, insistiamo a pregare per la pace. E che il Papa sappia di poter contare anche sulla nostra preghiera, accanto alla sua.

Quella stessa sera, mentre leggevo i messaggi sconfortanti della Rettrice di Haifa, sopra la statua di Papa Giovanni, nel Giardino della Pace, sono apparse due colombe bianche. Non so da dove fossero arrivate, ma per me sono state un segno di speranza. Un monito ad intensificare la mia preghiera e a invitare voi tutti, devoti del Papa Buono, a fare lo stesso.
E così ho fatto, scrivendo questa lettera.
Carissimi, grazie. Preghiamo, insistiamo, perforiamo il cuore di Gesù con la nostra preghiera, affinché Egli tocchi il cuore di chi può far tacere le armi e favorire il dialogo e la pace.
don Claudio